La qualità di un gioco

di Walter “Plautus” Nuccio

Sembra che fare il blogger sia la moda del momento. Assistiamo continuamente alla comparsa di novelli “giornalisti” ludici pronti a sfornare, a volte con originalità e competenza, altre con un approccio, ahimè, superficiale e riduttivo, valutazioni e critiche sui titoli più recenti. Ciascun recensore tenta, a suo modo, di dare a chi legge un’indicazione su quanto un titolo possa considerarsi ludicamente valido, ed ha in questo una grossa responsabilità di cui non sempre è cosciente. Di fronte a questo dilagare di informazioni viene da chiedersi se esse siano tutte degne d’attenzione: si tratta solo di opinioni o c’è qualcosa di più? E’ possibile andare oltre le considerazioni puramente personali e valutare oggettivamente la qualità di un gioco?

I gusti del pubblico
Prima di tentare una risposta, e per dare un senso a tutto il discorso che seguirà, è indispensabile fare una premessa: la qualità di un gioco non è un fattore esclusivamente soggettivo. Siamo seri: non ha alcun senso scrivere di giochi se tutto “è solo questione di gusti”. Non lo ha per almeno tre motivi. Innanzitutto perché qualunque discussione sull’argomento, incluso il presente articolo, diventerebbe un’inutile perdita di tempo dato che de gustibus non disputandum est; in secondo luogo perché ciò non renderebbe giustizia al lavoro di tutti quei recensori che, con attenzione e professionalità, si sforzano di descrivere pregi e difetti di un gioco portando delle argomentazioni convincenti che vadano oltre il semplice “mi è piaciuto” o “non mi è piaciuto”; infine perché se chiunque può esprimere un giudizio su un gioco semplicemente sulla base dei propri gusti personali, allora il parere del primo che capita, anche qualora le sue conoscenze ludiche si limitino al Gioco dell’Oca, assume lo stesso peso di chi con i giochi ci lavora da anni ed ha maturato una serie di esperienze e di competenze di tutt’altra portata.

D’altro canto nemmeno possiamo considerare valida l’affermazione “il buon gioco è quello che vende”, che appare come il tentativo un po’ forzato di cercare un riscontro oggettivo della qualità di un titolo nel mero conteggio delle copie vendute. Una valutazione di qualità di questo tipo, a posteriori, scambia semplicemente la causa con l’effetto: sapere che il gioco X ha venduto Y mila copie in tutto il mondo può essere utile a richiamare la mia attenzione su un titolo potenzialmente interessante, ma non mi aiuta a comprendere le ragioni che sono alla base di un apprezzamento così vasto, e dunque, in ultima analisi, mi limita nelle mie stesse possibilità di apprezzare l’opera ad un livello più profondo. Inoltre, al pari di quanto avviene in letteratura o nel cinema, il favore del vasto pubblico non è mai un fattore di per sé sufficiente a distinguere le opere buone da quelle scadenti.

Dunque, la premessa del discorso che segue è che la qualità intrinseca di un gioco non è soltanto una questione di gusti o di successo commerciale.

I difetti di design
Proviamo a partire da un punto di vista opposto: quand’è che un gioco è “di scarsa qualità”? Evidentemente quando possiede delle caratteristiche poco desiderabili, dei difetti, delle criticità che appaiono intollerabili al giocatore moderno. In questo la teoria del game design ci viene decisamente in aiuto, poiché da tempo si occupa di classificare i problemi più frequenti dei giochi nel tentativo di individuare delle soluzioni soddisfacenti. Tra i difetti considerati oggi tra i più fastidiosi possiamo citare, a titolo di esempio, l’eccesso di downtime (il periodo di inattività in cui si rimane in attesa che torni il proprio turno) o il problema del runaway leader (la situazione per cui il giocatore in testa diventa irraggiungibile nella sua corsa verso la vittoria). Se ne potrebbero elencare tanti altri, ma non è questo il nostro scopo bensì quello di chiarire che la presenza di uno o più di questi problemi è già un importante indicatore della qualità non proprio eccelsa di un sistema di gioco.

Non è una questione di gusti, e non importa che voi siate più o meno tolleranti rispetto a queste criticità: un gioco pieno di difetti potrebbe piacervi ugualmente, per una serie di ragioni che non stiamo qui ad esaminare, ma ciò non autorizzerebbe a classificarlo come un buon gioco.

Le qualità positive
Accanto ai difetti ci sono poi dei tratti che caratterizzano positivamente un sistema di gioco, al punto di destare l’ammirazione di chi, con occhio critico e competente, è in grado di apprezzare anche quelle sfumature che possono sfuggire al giocatore occasionale. L’eleganza delle regole, benché sia un termine molto dibattuto e sul cui preciso significato non tutti concordano, è indubbiamente uno di questi aspetti. Anche se non siamo in grado di definire l’eleganza con esattezza (scriverò una mia riflessione al riguardo prima o poi), siamo senza dubbio capaci di riconoscerla non appena si presenti.

Un sistema di regole che riesca a gestire in modo semplice, chiaro ma soprattutto sintetico una molteplicità di situazioni di gioco, senza ricorrere ad eccezioni e regolette ad hoc, è senz’altro elegante: lo apprezziamo perché ci semplifica la vita, agevolando sia la memorizzazione che l’applicazione dei meccanismi di gioco. Anche la profondità del sistema (di cui abbiamo parlato qui) è un importante indicatore di qualità: a parità di tutti gli altri fattori, apprezziamo un gioco profondo dal punto di vista tattico o strategico perché ci pone di fronte ad una sfida intellettuale che ci stimola e ci appaga.

Non è solo questione di gusti: se un gioco non vi piace, prima di classificarlo come un brutto gioco dovreste chiedervi se siete riusciti a coglierne davvero tutte le sfumature; poi potreste decidere ugualmente di non rigiocarlo, ma almeno lo avrete valutato con una maggiore consapevolezza.

Le diversità dei generi
Non possiamo ignorare il fatto che nel mondo dei giochi da tavolo esistano molte tipologie o generi di giochi, ciascuno dei quali richiede necessariamente dei parametri di valutazione dedicati. E’ difficile, ad esempio, considerare l’eleganza, e quindi la snellezza del regolamento, un criterio di qualità universale, perché sappiamo benissimo che gli amanti del genere ameritrash non solo non considerano un difetto un’eventuale farraginosità delle regole, ma addirittura alcuni di essi traggono un piacere del tutto particolare dal confronto con regolamenti corposi o ricchi di eccezioni, forse per la soddisfazione che si prova nel padroneggiarli. Va anche detto, però, che almeno una parte di questi giocatori sarebbe ben lieta di maneggiare regolamenti più snelli a patto che ciò non andasse a discapito dell’ambientazione, dell’immersività , dell’accuratezza con cui è reso il tema. In altri termini l’eleganza delle regole ha sempre un suo valore intrinseco pur essendo, in alcuni contesti, sacrificabile in favore di altri aspetti ritenuti più importanti.

Dal confronto german vs american risulta chiaro che la strada migliore da seguire è probabilmente quella di tenere i due generi distinti, utilizzando per essi criteri di valutazione differenti. In un buon gioco german il rapporto tra semplicità delle regole e profondità è un elemento imprescindibile, mentre in un american sarà molto più rilevante l’aderenza delle meccaniche al tema.

Alea e qualità
Un mito decisamente da sfatare è che la quantità di “fortuna” presente in un gioco sia un indice della sua qualità. Si tratta solo di un pregiudizio. Conosco diversi autori, e nessuno di essi etichetterebbe un gioco come inferiore ad un altro soltanto perché ha una maggiore quantità d’alea. Il motivo è presto detto: per un autore esperto il fatto di inserire o meno una componente aleatoria in un gioco, nonché il peso che questo elemento assume in relazione all’abilità del giocatore, è semplicemente una scelta di design, fatta in piena consapevolezza. Se un gioco è esplicitamente pensato per essere strategico e impegnativo, un fattore aleatorio eccessivamente ingombrante apparirà fuori luogo, ma se il gioco si rivolge ad un pubblico occasionale, ed è volutamente progettato per essere leggero e imprevedibile, allora l’alea diventa un fattore non solo tollerabile ma in alcuni casi addirittura indispensabile, al punto che la sua assenza, piuttosto che la sua presenza, potrebbe essere interpretata come un difetto.

In conclusione, la presenza o l’assenza della componente fortuna non è rilevante per la qualità di un gioco se presa come fattore isolato, e occorre invece metterla in relazione con gli obiettivi che il designer si è posto e con il target di pubblico cui il gioco si rivolge.

Complessità e qualità
Spesso chi ama giochi più semplici e meno impegnativi parte in difesa dei titoli che “a lui piacciono”, attaccando con decisione chi predilige titoli più complessi con l’argomentazione, piuttosto debole, che “il gioco deve essere divertente”, frase che significa un po’ tutto e nulla. Accade talvolta anche il contrario, e cioè che chi ama i giochi complessi tenda a snobbare quelli troppo semplici. Ecco quindi un altro pregiudizio su cui occorre fare chiarezza: la complessità di un gioco non ha nulla a che vedere con la sua qualità.

Un titolo molto complesso e articolato è indubbiamente in grado di suscitare uno stupore e un’ammirazione maggiore rispetto ad un filler, proprio perché la sua progettazione richiede maggiori competenze tecniche; per lo stesso motivo una sinfonia per orchestra non può essere messa sullo stesso piano di un brano per strumento solista. Ma non avrebbe senso dire che un gestionale è qualitativamente superiore ad un filler: si tratta proprio di due tipologie di gioco non confrontabili.

Un gioco semplice è di buona qualità se riesce a catturare l’attenzione del giocatore di passaggio, se può essere spiegato rapidamente e giocato un po’ da tutti, se non dura troppo a lungo. Un gioco complesso dovrà necessariamente avere punti di forza differenti.

Armonia e coerenza
Anche un ottimo gioco non è mai del tutto esente da difetti, e deve talvolta sottostare a dei compromessi: è improbabile che un’ambientazione sia resa in modo dettagliato se si pretende di mantenere le regole semplici e poco numerose; è difficile aggiungere un elemento d’alea senza perdere un po’ in controllabilità. In un gioco di qualità, però, tutte le parti formano un insieme armonico. Da un punto di vista, per così dire, olistico, un buon gioco è quello che appare come un sistema coerente, all’interno del quale ogni singolo elemento (meccaniche, scelte, elementi tematici e di colore) ha una precisa funzione ed è presente nella giusta dose, non risultando né insufficiente né superfluo.

Ticket to Ride, ad esempio, è un buon gioco. Si tratta di un german game dal regolamento snello, in cui ogni singola scelta (semplice ma significativa) ruota attorno all’obiettivo centrale, ovvero alla costruzione di tratti di percorso. Il livello di tensione in partita (un fattore che è quasi sinonimo di “divertimento”, come ho avuto modo di dire in passato qui) è sempre elevato, e si accompagna ad una buona profondità sia tattica che strategica; nonostante il tema sia decisamente fittizio, ciò non rappresenta, come abbiamo visto, un fattore rilevante per questa tipologia di giochi. Non a caso sto citando un titolo che, personalmente, non amo molto: sono infatti convinto (se ancora non fosse chiaro) che la qualità prescinda, almeno in una certa misura, dal gusto personale, e che si possa tranquillamente dire: “questo è un ottimo gioco, per i seguenti motivi, sebbene personalmente non ami le sensazioni che mi trasmette”.

Chi è l’esperto?
Quelle che abbiamo dato finora sono una serie di indicazioni da tenere in considerazione quando si valuta un gioco. Ai fattori finora elencati (semplicità delle regole, aderenza al tema, quantità di alea, criticità di design), che sono ben lontani dall’esaurire l’elenco delle possibilità, andrebbero poi affiancate considerazioni relative alla grafica e alla componentistica dato che il gioco che acquistiamo, in fin dei conti, è pur sempre un prodotto. Sarebbe comunque troppo ardito spingersi oltre, nel voler fornire dei criteri assoluti o addirittura misurabili in base ai quali stimare la qualità di un gioco. Eppure, ed è forse un paradosso, è necessario almeno tentare uno sforzo in questa direzione, e cercare di capire quali elementi oggettivi fanno di un gioco un buon gioco. Ci sono diversi buoni motivi per farlo.

E’ necessario per dare un’indicazione chiara a chi sta muovendo i primi passi nel vasto mondo dei giochi da tavolo.

E’ necessario per supportare chi sta affinando il proprio gusto e la propria capacità di cogliere sfumature di design e aspetti che rimangono necessariamente invisibili ad un occhio meno esperto. Ciò permetterà a quel giocatore di godere maggiormente dell’esperienza ludica e di tributare il giusto apprezzamento all’autore, che quell’esperienza l’ha resa possibile.

E’ necessario perché è ciò che avviene in tutte le arti, dalla musica alla pittura, dal cinema alla fotografia, dove chi si limitasse a dire “è bello perché mi piace” semplicemente non sarebbe credibile.

E’ necessario perché risponde ad un’esigenza innata dell’animo umano: quella di indagare il perché delle cose, di esplorare i motivi per cui un’opera di ingegno ci appare grandiosa o costruita così bene da suscitare la nostra ammirazione.

Viene da chiedersi, quindi, chi abbia diritto a dire la propria quando si parla di giochi. Esiste forse una figura professionale, l’equivalente ludico del critico cinematografico o del musicologo, in possesso degli strumenti adatti a valutare la qualità di un gioco? Potrei dire (e troverei forse un diffuso sostegno) che solo la valutazione di un “esperto” debba essere tenuta in conto quando si parla di giochi. Tuttavia non lo credo davvero. Chi è l’esperto? Il game designer? Il “giornalista ludico”? Colui che gioca da anni, che ha provato centinaia di titoli diversi? Il giocatore da torneo, che ha dedicato innumerevoli ore all’approfondimento di un singolo gioco? E perché non il giocatore occasionale? Forse ciascuno di questi attori è un potenziale esperto, o forse nessuno di loro. Questa è la mia conclusione, forse un po’ provocatoria: il vero esperto è semplicemente colui che è in grado di argomentare ciò che sostiene; è colui che è in grado di far seguire la sua valutazione di gusto, il suo “mi piace” o “è divertente” da un’analisi chiara ed efficace del perché del suo apprezzamento. Non importa che a parlare sia Knizia piuttosto che il giocatore di passaggio: ciò che importa è che chi sceglie di parlare abbia qualcosa di interessante da dire.

Plautus

Walter (Plautus) Nuccio è un appassionato di giochi da tavolo e di game design, disciplina della quale ama indagare ed approfondire gli aspetti teorici. Ha partecipato al concorso Miglior Gioco Inedito Lucca Games 2011, arrivando in finale con Evolution.

9 pensieri riguardo “La qualità di un gioco

  • 14 Maggio 2015 in 12:33
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    Ottimo!
    Concordo su tutto, dalla prima all’ultima parola!
    Sono contento che hai scritto questo articolo con la solita competenza e capacità di analisi.
    Il problema è che ovviamente tutti danno le proprie opinioni su tutto, con grande presunzione, e questa è una malattia molto diffusa in particolar modo in italia, e vale per tutti gli ambiti.
    Qui in particolare anche molti ‘addetti ai lavori’ sono solo dei pescivendoli, che non sono neanche in grado di capire a fondo quello che vendono… ;)

  • 22 Maggio 2015 in 17:40
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    Mi è piaciuta moltissimo: “il vero esperto è semplicemente colui che è in grado di argomentare ciò che sostiene”. Chirurgica.

    Non sono d’accordo però sul fatto che un gioco con tanta alea sia automaticamente o comunque così spesso facilmente da abbinare a leggerezza, poca strategia, un pubblico occasionale, etc. però è opinione diffusa e ne prendo atto. Poker e Backgammon per fare due esempi sono giochi ad altissima alea ed insieme altissima strategia. Credo che quando il design è buono, i giochi con molta alea siano da considerarsi giochi di “abilità nel gestire il rischio” e non hanno nulla da invidiare al più pesante e strategico german, anzi, aggiungendo una variabile da ponderare in più.

    Se invece il discorso “con tanta alea” significa “il risultato del gioco è influenzato in maniera dominante dall’alea” allora ho frainteso il passaggio :D

    • 22 Maggio 2015 in 20:11
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      Ciao e grazie del commento. In realtà io ho detto una cosa leggermente diversa, e cioè che se un gioco è leggero allora un po’ d’alea è quasi indispensabile. Il viceversa, come tu giustamente fai notare, non è detto, cioè se il gioco ha alea non per questo è necessariamamente leggero, e può essere effettivamente molto impegnativo, come il Poker da te citato (potremmo parlare anche di Bruges… ma quella è un’altra storia!).
      Tuttavia, parlando proprio di game design nudo e crudo, bisogna anche aggiungere che progettare un gioco con poca o nessuna alea è decisamente più difficile. Questa è una cosa che non viene mai sottolineata, e sarebbe un fattore da tenere in conto nei propri giudizi ;)

  • 23 Maggio 2015 in 11:25
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    Ciao! Ma per “gioco con molta alea” intendi un gioco in cui questa influisce molto sul risultato a prescindere dalle azioni del giocatore o più in generale un gioco in cui molte informazioni non sono calcolabili con esattezza? Tralasciando il primo caso, che è banale, secondo me il secondo presenta un tipo di difficoltà diversa e notevole, assolutamente non “meno difficile” (che poi il risultato faccia schifo è un altro discorso :D ). Ci sono sistemi di casualità calcolati in virgola mobile, in cui il designer viualizza l’esperienza di gioco e la realizza e confeziona con un sistema di probabilità cucito a misura con precisione matematica. Credo che anche in questo caso a volte non si coglie la qualità del dietro le quinte di un design del genere perchè non non si coglie quell’aspetto matematico (assolutamente non un limite, ma se parliamo di critica pura al designer bisogna considerare anche quello).

    Esempi di assoluta semplicità nel risultato finale, ma grande eleganza e “spessore” matematico nel dietro le quinte: tutto il sistema D20, o l’ordinamento per costo ed effetto delle carte di Um Krone Und Kragen, o il combat di ASL che è la simulazione più realistica di combat eppure retta da un solo dado.

    Grazie e ciao!

    • 23 Maggio 2015 in 13:34
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      Volevo solo dire che l’alea, intesa proprio come casualità pura (dadi, carte pescate ecc…) è un modo semplice per risolvere una serie di problemi di design, ed è più complicato farne completamente a meno.
      Almeno questa è la mia opinione, confermata parlando con un autore molto esperto (poi può darsi che altri autori la pensino diversamente, sarei curioso di sentire altri pareri al riguardo).
      Che poi anche i giochi con alea richiedano un grosso lavoro di bilanciamento, è vero, sono daccordo.
      Ciao e grazie a te.

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